Testo critico di Roberto Daolio

Comune di Reggio Emilia
Civici Musei
1985

La proliferazione incontrollata e incontrollabile delle dimensioni più contrastanti della ricerca pittorica degli Anni Ottanta, si è alimentata e si alimenta di strategie linguistiche che potenziano l’emergenza di immagini significative dalla babele dell’universo visivo. L’incessante movimento dei linguaggi, dirottato dall’artista sui binari di un processo conoscitivo individuale, pur subendo lo scarto della precarietà di una estensione illimitata, può concentrarsi di un senso privilegiato. L’opera d’arte vive i momenti congestionati di un tempo storico votato all’esercizio di un pensiero “soffice”, non tanto per  adattabilità quanto per consapevole vocazione alle soluzioni più agili e fluttuanti. Accanto ai richiami dei percorsi battuti all’insegna della rivisitazione compiacente si estende l’attenzione al curioso miscuglio dei “rumori di fondo”. Prestare orecchio a questo amalgama significa potenziare le valenze di ascolto ed ampliare la lunghezza d’onda della propria sensibilità. In questo senso all’interno della ricerca di Melioli esistono delle impercettibili e raffinate variazioni che raccolgono, dall’humus interno della pittura, una sostanza significativa atta a trasformare il pulviscolo segnico in una trama densa di sollecitazioni strutturali. Le ampie superfici galvanizzate dai lenti passaggi cromatici, impongono una spazialità anomala. L’interesse di Melioli per lo sfondamento prospettico, dichiaratamente rifondato sulle potenzialità di una riduzione di stampo geometrico, lo porta a sagomare le tele partendo da un “punto di vista” interno alle superfici stesse. Il rigore concettuale di questo essere dentro lo spazio, attraverso la proiezione simbolica di un’”assenza”, costituisce uno degli elementi essenziali all’emergere di un “oggetto” o di un frammento descrittivo. Se l’assunzione di un segno paradigmatico tende a concentrare l’attenzione sull’equilibrio precario delle qualità compositive, l’apparire di una forma “estranea” fornisce un punto d’appoggio allo sguardo disorientato dalla vertigine del “vuoto”.

La rappresentazione non lo interessa. Anche quando certi schemi di sapore narrativo sembrano concretarsi nei preziosismi simbolici di un apporto di tipo tridimensionale e quasi esclusivamente oggettuale (in cui, per intenderci, la pittura appare come sfondo o come “anonima” quinta dallo spessore agitato e materico) le frasi di una possibilità di racconto metaforico si staccano dal contesto mimetico per ergersi autonomamente nello spazio reale di una “presentazione”. L’occhio di marmo “per Iside” o il piccolo cubo e i riccioli di terracotta del “Reperto platonico”, appoggiati su un disco dipinto come un cielo stellato riflesso nel mare, sono gli esempi totalizzanti di una rilettura simbolica dei materiali presentati a riflettersi in una concentrazione spazio-temporale di evocazione “barocca”.

Tuttavia l’ingegnoso impianto “scenico” di una polifonica armonia compositiva, si scioglie e si alleggerisce attraverso la lateralità di un tocco e di uno sguardo ironici. Quando la pittura richiama se stessa e le proprie disposizioni analitiche per verificare, nella complessità iterativa di un pattern, i diversi livelli e le sovrapposizioni dei sottili strati di significazione, la superficie “raddoppia” o si espande a conquistare nuovo spazio.

Melioli, con estrema lucidità, rende omogeneo e appiattisce l’impulso entropico della ripetitività e della ridondanza a senso unico. Ribadendo la natura retorica di un artificio che si nutre della propria sostanza teorica, approfondisce gli echi di un passato lontano nello scambio sistematico delle parti. La pittura di Melioli pone sicuramente in atto la trasfigurazione di un elemento materico che si dilata oltre la già citata suggestione “tridimensionale”. L’instabilità che può nascere al centro dell’opera o ad una sua estremità, è un segno di forza e di rottura in quanto agisce e corrompe dal di dentro. Il campo mobile della superficie consente all’artista di svelare meccanismi segreti e di “squarciare” il velo della pittura per ritrovare l’incantesimo di un gioco, il reperto di una memoria mitica o la proiezione di un’immagine fantastica. Attraverso la sorpresa di una modificazione, al di fuori di ogni sistema di previsione, l’atto creativo qualifica l’appartenenza al proprio tempo dilatato nelle dimensioni dell’arcaico, come sedimentazione antropologica, e del presente, come mutazione continua ed incessante.