Testo critico di Francesco Poli

Comune di Rimini
Assessorato Cultura
Galleria dell’Immagine
Palazzo Gambalunga
2000

La scultura di Iler Melioli va guardata con molta calma e attenzione, perché nella sua apparente evidenza di costruzione, in termini di strutture a dominante geometrica, nasconde una complessità enigmatica e inafferrabile secondo una logica razionale consueta. Non sono opere che danno risposte, che rimandano a qualche definita dimensione di significato; al contrario si pongono come domande, come silenziose presenze che si interrogano innanzitutto sulla propria identità, sul senso della loro esistenza di oggetti plastici della nostra cultura di fine secolo, caratterizzata da una crisi dei miti tecnologici e da un ripensamento profondo delle ragioni stesse dell’ideologia del progresso in cui bene o male continuiamo a essere coinvolti (o travolti). Senza pretese di analisi sistematica, cerchiamo di mettere a fuoco qui una riflessione sul lavoro di Melioli, facendo riferimento ad alcuni aspetti che possono essere considerati di maggior importanza. In altri termini si propone un gruppo di “voci” che formano una breve sequenza di commenti si spera non in contraddizione con la poetica sottesa alla ricerca dell’artista. L’ordine delle voci, s’intende, è intercambiabile dato il loro carattere generale.

Spazio

Queste sculture hanno una totale autonomia rispetto allo spazio che le circonda, in quanto appaiono come mondi chiusi in se stessi, autosufficienti nella sostanza, anche se la loro struttura ha un’impronta che si potrebbe definire per certi versi segnaletica; un valore con forti potenzialità simboliche con valenze allo stesso tempo totemiche e tecnologiche. Collocate in esterno o all’interno di spazi chiusi, trasmettono uno strano senso di solitudine, una tensione plastica inquietante e affascinante. C’è qualcosa di metafisico che si irradia intorno a loro.

Tempo

Questa atmosfera metafisica deriva da una dimensione di sospensione non solo nello spazio ma anche nel tempo. E forse è soprattutto quest’ultima categoria a essere messa in questione con maggiore intensità. Un fatto che potrebbe sembrare piuttosto strano, se si pensa che siamo nell’ambito del linguaggio visivo, che per sua natura si articola nelle tre dimensioni spaziali. Qui il problema del tempo entra attraverso le suggestioni che le forme stimolano nella nostra memoria. Sono suggestioni connesse all’immaginario collettivo che, insieme alla carica di energia degli oggetti della più stretta modernità, raccolgono in sé i più lontani echi archetipici. Passato e futuro si neutralizzano a vicenda senza però per questo confermare il presente: anzi è proprio questo ad essere per così dire smentito come certezza per mancanza di punti di riferimento fissi.

Il Villaggio Globale

È bene citare qui quello che scrive l’artista per chiarire uno dei fondamentali motivi d’interesse della sua ricerca, si tratta dell’intenzione di evocare attraverso i suoi lavori un immaginario archetipo di un grande e primitivo reperto, un ipotetico e surreale villaggio: – Questa suggestione nasce dall’attuale concezione del mondo come “grande villaggio” in quanto i problemi, le connessioni, i modi di trasmissione che investono la sorte dell’uomo sul pianeta sovrastano i limiti delle culture regionali e nazionali – Ci troviamo dunque in un mondo che sembra organicamente e inestricabilmente interconnesso attraverso articolatissime reti di comunicazione sul piano dei trasporti così come su quello dell’informazione. Tutto risulta più vicino, a portata di mano; si può sapere, praticamente in contemporanea, quello che è successo o sta succedendo dalla parte opposta del globo; si può mandare informazioni a chiunque e dovunque, con una velocità impensabile solo qualche decennio fa. Ma tutto questo ha veramente unito di più la società umana? Oppure ha creato una situazione che rischia una rottura irreversibile con i modi di vita del passato e anche con le forme tradizionali di aggregazione e di definizione dell’identità individuale? Forse oggi, sembra dirci l’artista, al di là delle forme esteriori, si sono determinate delle condizioni che troppo spesso producono una sostanziale crisi d’identità, una solitudine che ha radici in un vuoto esistenziale che inutilmente cerca di essere riempito dalle più svariate maschere dell’apparenza.

Crisi della modernità: i simulacri tecnologici

Attraverso una significativa installazione all’aperto delle sue sculture, Melioli mette in scena in forma emblematica e ironicamente monumentale, la sua visione di questi inquietanti interrogativi. Le forme impassibili e immobili dei suoi totem tecnologici si stagliano in controluce contro il cielo (al confine fra un al di qua e un al di là): i messaggi, le informazioni, le indicazioni di direzione, di cui dovrebbero essere portatori questi oggetti si azzerano nel vuoto. Rimane il fascino ormai inspiegabile di precise e ben definite silhouettes vagamente antropomorfe. Si potrebbe forse parlare qui di una sorta di teatro delle apparenze, di un’evocazione poetica di fantasmi iconici.

L’oggetto-scultura

Le sculture di Melioli hanno una loro precisa autonomia di forma e struttura e dal punto di vista estetico possono vivere in perfetta solitudine,(nell’installazione di cui si è parlato formavano un insieme di individualità, anche se con un’evidente parentela).
Per essere precisi comunque, bisogna dire che non ci troviamo davanti a sculture che nascono da una modellazione plastica tradizionale, ma davanti a “costruzioni legate alla cultura del profilato, della lastra, che la tecnica industriale immette sul mercato” (così ci informa l’artista). Questo però non esclude il fatto che la realizzazione sia estremamente curata e raffinata e che i materiali siano scelti con un’attenzione molto meditata per quello che riguarda gli effetti estetici. Questi oggetti plastici, pur avendo intenzionalmente qualche riferimento a strumentazioni scientifiche o elettroniche oppure a forme primitive, non assomigliano a nessun altro oggetto esistente: sono invenzioni di notevole suggestione, dove è assente però qualsiasi valenza di espressività soggettiva.

Le forme e i volumi

Le forme e i volumi delle sculture, nel loro insieme, prendono corpo attraverso un’articolata giustapposizione di elementi di struttura geometrica, evitando però sempre gli schemi regolari e scontati. L’impianto è generalmente verticale e si sviluppa all’interno di un rapporto di contiguità fra bi dimensione e tridimensione, creando una particolare complessità di percezione. L’occhio dell’osservatore è continuamente sollecitato da cambiamenti di prospettiva, dalle rotture dei piani, dal ritmo spezzato degli angoli, dalla dialettica dei vuoti e dei pieni, dalla variazione dei toni che caratterizzano le superfici.

Materiali

Lasciamo ancora la parola all’artista:  “Le strutture portanti sono rivestite da una pelle di materiali diversi; il piombo che appartiene a una memoria mitica e che evidenzia nelle sue ossidazioni il segno del tempo, e il nero pvc, un materiale freddo, inerte, che appartiene alla nostra storia e che non produce contrasto ma, anzi, favorisce all’interno dell’opera una lettura dei piani, del profilo, quasi una forma retorica del linguaggio.”
Ci sono poi anche delle presenze di luce via, rossa, di minima entità quantitativa e sempre correlate al senso complessivo della struttura plastica. Nessuna esibizione, quindi, di effetti tecnologici eclatanti, ma solo qualche segnale della presenza di un’energia luminosa quasi allo stato larvale: un’intensità qualitativa, non quantitativa.

Conclusione

L’aspetto più interessante di questi lavori, da un punto generale, secondo me risiede nella loro capacità di presentarsi come eventi artistici in qualche modo caratterizzati da una sorta di intimismo antispettacolare, come uno stimolo estetico per una riflessione sulla realtà che ci circonda e sui valori ideologici che ne giustificano troppo spesso anche le distorsioni più alienanti. Nel loro silenzio, queste sculture mandano segnali rarefatti ma intensi, basta porsi nella giusta condizione per poterli  intendere.