Testi critici di Dede Auregli e Luigi Meneghelli

Dede Auregli

(…) Le opere di Iler Melioli consistono immobili, non esenti da un’aura sacrale, quasi ierofanie o obelischi del futuro, anche se uno scarto laterale contraddice il rigore del progetto studiato al computer, cone se quest’ultimo si fosse permesso una nota di umana follia. La rottura della simmetria, che subentra ad un certo momento nell’opera, è allusiva del cambiamento e delle possibilità dinamiche che comporta all’interno di un sistema apparentemente monolitico, nel quale, tuttavia un aumento di disordine controllato (definito dalla fisica come direzionalità dinamica), conduce ad un ordine di grado superiore: Melioli attiva così il problematico rapporto tra entropia e neghentropia.

L’acciaio inox definisce nettamente la forma nella sua fredda rigidezza e accoglie la luce (e i colori circostanti) senza lasciarsene attraversare, tanto che in certe situazioni ambientali l’opera pare smaterializzarsi, se non mimetizzarsi nell’ambiente. È dunque evidente l’amore per la costruzione mentale, per il calcolo numerico che, se si possono far discendere da un certo “macchinismo” futurista, appaiono però assai più fondati su coordinate fornite dalle scienze fisiche e matematiche. Le Arborescenze frazionali sono ottenute applicando così precisi calcoli logaritmici che hanno traslato la loro definizione per via metaforica dagli studi biologici e queste, come le altre opere, appaiono nascere dall’interrogazione su cosa stia dietro l’aspetto esteriore del reale, riconsiderando epistemologicamente la natura delle coordinate della realtà come lo spazio, la materia, e il tempo.

Luigi Meneghelli

(…) I lavori di Iler Melioli sembrano fondarsi sull’immacolato edificio della matematica o della geometria euclidea, formalizzare quegli equilibri che reggono anche il mondo della materia e della biologia. Così almeno sembra: perché poi ci si accorge che la sua attenzione non tende al conseguimento di un teleologico principio di ordine (che significherebbe anche conseguimento di uno stato di entropia e di “degradazione”), ma tende a vedere (e ottenere) un ordine “altro”, più complesso, più vicino ad una concezione dinamica dell’universo e del suo divenire (ordine che R. Thom ha definito come “poetica dell’instabilità strutturale” o anche come “art vagabonde”). Ciò vuol dire partire da leggi per infrangerle, da delle regole per eluderle: ma non per dare scacco alla conoscenza, bensì per sviluppare nuove possibilità cognitive, nuovi valori informativi. Così i solidi lineari che Melioli realizza su grandiose scale dimensionali (quasi figure oracolari o araldiche) evidenziano sempre come dei movimenti turbati, irregolari, come delle traiettorie lacunose. Ma non è l’opera che viene meno (che non si compie): è piuttosto l’opera che progetta, che disegna una inedita misura dello spazio. Uno spazio da cui non viene risucchiata, ma uno spazio su cui essa agisce, uno spazio che essa apre.