Severo Sarduy, carteggio con Iler Melioli 1984

Traduzione in Italiano delle lettere e del testo critico di Severo Sarduy alle opere di Iler Melioli (traduzione di Lorenzo Lapini).

Sarduy – Lettera 1

Parigi, 1 Agosto 84

Caro Melioli,

Ti invio, anche se molto in ritardo, lo so, le figure che ti avevo promesso. Spero che possano ancora avere la fortuna di servire per il catalogo e che la loro traduzione non comporti difficoltà. Il mio ritardo è stato dovuto ai vari impegni in America ed ai troppi e difficili viaggi per l’Atlantico. Ora che sono in vacanza e che sto per partire per Venezia -Klimt lo rende obbligatorio, nonostante Bonito Oliva lo scoraggi-, ti mando queste tre metafore. Voglio poi riaffermare il mio interesse per la tua arte, augurarti tutto il successo che merita il tuo lavoro, al contempo barocco e nuovo, e soprattutto ribadirti la mia amicizia.

Fatti vivo se passi per Parigi. Il tuo lettore -di immagini-

Sarduy – Lettera 2

Caro Melioli,

Grazie per la lettera e per le stupende foto. Fanno venire voglia di gridare: così come Rodrigo di Triana quando avvistò l’America gridò “Terra!”, la sfilata dei tuoi quadri suscita il grido “Cielo!”. Sì, è un cielo, però di un’armonia tolemaica, si tratta cioè di un luogo insieme fisico e simbolico, di una parata di astri regolata da intensità e gerarchie differenti: a tratti è un cielo greco, ossia popolato dall’energia e dagli dèi, da idee e labirinti; altre volte è lo spazio unificato dell’Alberti, omogeneo e misurabile, lo spazio dell’astrolabio e dei piani in prospettiva; ed è infine anche il cielo sfocato e non sintetizzabile della relatività. La serie potrebbe quindi essere chiamata “Storia del Cielo”: niente è mai stato più mutevole, più contraddittorio, più rivelatore delle idee terrestri e più influenzato da ideologie passeggere della nostra percezione del cielo, da quello di Osiride a quello di Einstein.

Sarebbe l’ideale Barilli o Menna, anche Corte, in ogni caso qualcuno che sfugga all’orbita di Bonito Oliva, sempre che questo qualcuno esista. Pubblica presto il catalogo. Un abbraccio.

Metafora della figura armonica

Fino al Barocco, fino a quel “taglio” che è però anche una nuova direzione – verso l’eccesso manierista, la distorsione fiammeggiante ed il suo contenuto di grottesche allegorie leggibili – e una discussione, la metafora della figura armonica è il cerchio. Ideale, perfetto, platonico, con tutti i suoi punti esterni ugualmente distanti da un punto centrale, solare, celeste.

Il Barocco mira a decentrare, a scindere, a perturbare questo ordine troppo perfetto, questa metafora esplicita dell’armonia, sostituendola con un disordine apparente: l’ordine di un’altra figura. Si impone l’ellisse, introducendo il suo disegno espanso, il suo doppio centro. Anche nella scrittura stratificata e volutamente enfatica dell’epoca, come costituita da tanti sottili piani di significato, si impone l’ellissi, vertente retorica o doppio della sua simile forma geometrica.

Di tale capovolgimento, di questa caduta non ne sono soltanto testimoni gli ampi e sinuosi monumenti di Borromini; l’orbita folgorante dell’estasi di Santa Teresa trafitta dalla freccia; la circolazione del sangue nel corpo; un modo di pensare e di essere Barocco.

Come in una sequenza diacronica, come attenuata e riattivata da una camera dell’eco, velata, riletta, l’ellisse ritorna anche nella pittura riflessiva e lucida di Melioli: un Barocco riformulato, riscritto nei termini di oggi, sempre ricominciato.

Metafora della figura ingegnosa

Metafora della figura ingegnosa: risata sonnambula di Gracián. Né il bagliore accecante, troppo “verniciato” di Góngora; né la cenere significante di Quevedo: no, il dolce riso, l’ingegno, l’astuzia demolitrice di Gracián.

Melioli, nelle sue costruzioni che insieme elogiano e parodiano il fare dell’epoca barocca, il sapere di questi laboriosi costruttori di sillogismi, evoca e gioca con la risata gracianesca: su una tela, un prodotto attuale, carico dell’ideologia industriale del ventesimo secolo, improvvisamente si rivela, come in trasparenza o in uno specchio, il diagramma del Barocco, la perfetta organizzazione del cosmo, materializzato in una mappa celeste.

Brusca irruzione nella sua pittura, per il dialogo tra i materiali impiegati, dell’aspetto diacronico, con lo specchio – Barocco in sé- del tempo che si ripiega su se stesso, o del suo rispecchiarsi.

Da questo confronto, o da questa conversazione tra materiali, epistemologie distribuzione delle stelle e dei diagrammi, nasce la sua risata, la sua delicata irrisione. E questa è esatta e colta come nel Barocco nella sua metafora migliore: l’ingegno di Gracián.

Metafora della figura poetica

La frase barocca, equilibrata nei suoi termini, stabile, persino sicura ma al contempo leggermente decentrata, insistente in uno dei suoi aggettivi nel lampo di un’analogia o di un’immagine, costituisce la miglior metafora della figura poetica. Una saggia organizzazione, una perfetta architettura della cui facciata percepiamo solo la simmetria e l’esatta equivalenza degli elementi ornamentali, ed in cui, al contempo, tutto è stato strutturato in funzione di un’insistenza, di una focalizzazione: nella sua ascesa elicoidale o nella sua brusca caduta, la frase si impernia su un angelo, su una colonna tortile, su una voluta, su un nodo che lega delle cime ad una sfera armillare, il simbolo e il retaggio del Barocco viaggiatore, delle temerarie incursioni in India.

Prima dei Barocchi lo scoprirono i Greci. Per arrivare alla metafora della figura poetica è necessario deformare. Una sfida e un paradosso concettuale che il Barocco non fece altro che accentuare, esagerando i suoi termini fino a convertirli in un codice, nel modello di una significazione. Deformare e riequilibrare per dire.

Là dove risiede l’equilibrio, dove ci sono la stabilità e la misura, cerchiamo l’ipertrofia occulta, l’eccesso, il supplemento barocco: la metafora della figura poetica e della significazione.